GRAPPA.-----clicca e scopri-----
La grappa è il distillato ottenuto dalla vinaccia, la parte solida a residuo della torchiatura dell’uva da vino, la cui paternità esclusiva spetta all’Italia. La grappa infatti è l’unico distillato ottenuto partendo da una materia prima solida, uno scarto produttivo altrimenti destinato ad essere disperso nei campi come concime naturale. L’utilizzo di una materia solida avvicina il distillato italiano, più di tutti gli altri, al principio alchemico che voleva estrarre l’anima, la quintessenza dai corpi solidi che vide secoli di tentativi vani nel tentare di ottenere oro da metalli di ogni genere.
Lasciando da parte la legislazione e i principi alchemici, la definizione che meglio descrive la grappa è di Carlo Cambi, che riprende una frase di Mario Soldati e dice:”Se il vino è la poesia della terra, la grappa è la sua anima”.
LE ORIGINI DELLA GRAPPA.
La grappa deve probabilmente il suo nome al graspo dell’uva, utilizzato come materia prima per la sua produzione, insieme alle bucce. Ma non mancano altre tesi che riportano all’italianizzazione del termina schnapps, usato dai popoli nord europei er definire una bevanda alcolica.
Il termine grappa compare ufficialmente solo alla fine del 1800, e contestualmente vengono codificate le procedure per la sua produzione e la materia prima da utilizzare. Questa definizione viene massicciamente usata in etichetta e sui manuali solamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, mentre era molto più frequente “acquavite di vinaccia” parola utilizzata fin della nascita dei primi manuali di distillazione italiani e sulle etichette della totalità dei prodotti. Vi è poi un inter regno dove alla parola Grappa segue il sottotitolo “acquavite di vinaccia” ad indicare la volontà di usare il nuovo termine, italianissimo e distintivo dal resto dei prodotti da vinaccia, ma con la paura che la gente non riconoscesse in esso la sua tradizione.
In alcune aree del Piemonte resiste ancora il nome Branda, grappa infatti ha sicuramente origine dal nord est. L’etimologia del termine lo fa chiaramente derivare da brandy, e sta forse a dimostrare come il distillato fosse inizialmente ottenuto con il vinello, termine tecnico ad indicare un vino da pasto leggero ottenuto con il dilavamento delle vinacce, pratica oggi vietata espressamente dai disciplinari enologici. In passato infatti si tendeva a distillare le vinacce immerse nell’acqua e non a secco, cosa possibile solamente con l’avvento degli alambicchi a bagno maria e con caldaia a vapore.
Dalla regione sabauda proviene un’importante testimonianza sulla nascita della distillazione in Italia , un documento del 1443 del dazio doganale, attestante il pagamento di una tassa su un acquavite di origine enologica, definita nel documento “acquavite da Barbera e Moscato” di cui non sappiamo con precisione la materia prima, che se fosse individuata nella vinaccia, porterebbe la grappa in testa alla cronologia dei distillati. Fonti scritte riportano che già nel 1700 a Franciscio, una frazione di Campodolcino, in provincia di Sondrio, come intere famiglie si dedicassero alla distillazione di vinacce, raccogliendo le stesse durante i freddi mesi invernali, quando era impossibile coltivare i campi. Alcuni di loro giravano per i villaggi della Valtellina con alambicchi a ruote, altri trasportavano in montagna la vinaccia sui carri di ritorno dal mercato, dove avevano venduto i loro formaggi d’alpeggio. Questa attività diede vita alla leggendaria figura dei “grapat“, la cui famiglia più famosa sarà quella dei Levi , seguita dai Francoli e dai Dalla Morte, la cui diaspora dal paese natio darà vita a molte distillerie ufficialmente registrate sul territorio italiano.
LA CARATTERISTICA UNICA DELLA GRAPPA ED I PRINCIPALI TIPI DI DISTILLAZIONE.
La grappa è l’unico distillato che si ottiene da una materia prima solida, le vinacce, dal quale l’alcol viene estratto tramite il delicato passaggio di vapore acqueo, ottenuto tramite una caldaia in pressione o ponendo sotto i cesti traforati, contenenti le vinacce, dell’acqua. Il vapore passa lentamente attraverso le bucce degli acini, con una pressione molto bassa, circa 0,5 atm. con il compito di estrarre la frazione alcolica contenuta in esse. Il vapore alcolico viene poi condensato all’interno di una vasca e questo liquido viene chiamato flemma. La sua gradazione varia dai 25 ai 28 gradi. Dovrà essere poi portato nuovamente in temperatura e distillato per concentrare l’alcol, come vedremo in seguito.
Lo stile maggiormente rappresentato in Italia è quello delle caldaiette a vapore, a cui viene abbinata una colonna di rettifica. La velocità nel disalcolare le vinacce e la delicatezza del procedimento lo fanno preferire a tutti gli altri, tanto che si calcola che circa il 90% degli alambicchi sia fatto in questa maniera.
Seguono gli alambicchi a bagnomaria, dove viene scaldata dolcemente all’interno di cestelli forati, liberando così dolcemente l’alcol in uso sopratutto in Trentino e storicamente in Piemonte dove ne sopravvivono 2 originali con intercapedine in muratura.
Infine il fuoco diretto, dove può essere addizionata ad acqua, per evitare che le bucce si attacchino al rame della caldaia rischiando di “bruciare” i profumi delicati. I sentori di cotto in questa grappa comunque permangono come segno caratteristico, poichè in virtù del peso specifico la vinaccia si adagia sul fondo, a contatto con il rame della caldaia. Pertanto storicamente, prima dell’avvento delle caldaiette a vapore inventate solamente alla fine dell’800 da Comboni, si usava distinguere il processo di produzione della flemma in due modi: a “vinacce emerse”, ovvero non a contatto con l’acqua o a “vinacce sommerse” quando erano poste a bagno in acqua.
Alla prima categoria appartenevano gli alambicchi a “bagno maria“, dove le vinacce sono poste in particolari cestelli all’interno dell’alambicco e la loro disalcolazione avviene grazie al riscaldamento delicato, senza uso di vapore, delle pareti dell’alambicco. Il vapore viene formato dalla naturale umidità della vinaccia e dal minimo necessario di acqua posto sul fondo dell’alambicco. Alla seconda categoria appartengono gli alambicchi a fuoco diretto che per ovvi motivi hanno bisogno di acqua per non bruciare le vinacce.
LA CONNOTAZIONE REGIONALE DELLA GRAPPA NEL TEMPO.
La grappa per lungo tempo fu un prodotto tipico del Nord Italia, radicato in Piemonte, Trentino, Veneto, Lombardia, Friuli con una rappresentanza in Sardegna. Le ragioni non sono tanto legate all’enologia, diffusa in tutta Italia, ma da ragioni climatiche. Nel sud con un clima caldo, tranne rare eccezioni sulle montagne, non si ha bisogno di un distillato la cui gradazione, storicamente, non era mai inferiore ai 45/50 gradi.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale con una maggiore diffusione del prodotto, anche grazie ad opportune e mirate campagne promozionali alcuni liquoristi del Sud Italia, iniziarono a proporre le loro grappe. Campania, Calabria e Sicilia ebbero così le loro distillerie che lavoravano in loco le vinacce delle abbondanti vendemmie. La grappa si conquistò nuove fette di mercato e di consumatori entusiasti, diventando culturalmente il distillato nazionale. Una grappa molto conosciuta a livello regionale è stata il “Filu e ferru” sardo, la cui distillazione fu introdotta dai piemontesi durante il “Regno delle due Sicilie”.
Alcuni prodotti piemontesi recano ancora in etichetta la dicitura ” Vej filfer” , “vecchio filo di ferro” a ricordare l’origine sabauda del nome. L’originale termine del prodotto pare derivare non dalla gradazione alcolica elevata, tale da giustificare la parola ferru, ma dalla consuetudine di occultare il distillato sotto terra.
LA MODA DEL MONOVITIGNO E LA SUA INFLUENZA.
Il mono vitigno fece fare un balzo qualitativo eccezionale alla grappa, prima vissuta come prodotto dalla materia prima indistinta, a causa degli stessi contadini, che spesso vinificavano più vitigni per realizzare i loro tagli ed uvaggi e del distillatore che caricava tutto sul medesimo carro durante il giro di raccolta. Nelle vigne infatti venivano coltivati più vitigni contemporaneamente.
I più sensibili alle muffe o i più prestigiosi, come il Nebbiolo, in cima alle colline, ben soleggiate e con brezze costanti, a metà collina i vitigni con buone rese, assicurate da terreni drenati ed esposizioni al sole ottime assicurate dalla pendenza, infine nel fondo valle, se non vi fosse spazio per mais o cereali in genere, vi si mettevano a dimora le viti con caratteristiche di resistenza alle muffe e minor bisogno di insolazione. Ma mancando l’analisi del Dna era tutto frutto dell’esperienza. E nelle vigne le barbatelle erano quanto mai confuse.
Si pensi che nelle vigne del Piemonte sono stati trovati, grazie all’analisi del Dna vitigni pugliesi, greci e siciliani scambiati per Barbera, Moscato e Dolcetto. Anche le maturazioni erano diverse, ma le vendemmie non potevano essere molteplici, fatto salvo quella dei bianchi e dei vitigni primitivi (da primizia, o con maturazioni anticipate) quindi si staccavano i grappoli quando il livello generale era ritenuto buono. In questo modo le maturazioni non erano perfette per ciascun vitigno e la qualità del vino e poi della grappa ne risentiva. Con il decrescere del consumo del vino e con l’arrivo di una maggior propensione alla qualità i re impianti delle vigne vennero fatti con maggior razionalità.
I vivai fornivano barbatelle certificate non solo più dall’esperienza ma anche dalla scienza. Le vigne furono uniformate e le doc generiche dove era permesso un variegato numero di vitigni divennero la minoranza. Adesso era possibile la nascita della grappa monovitigno.
La produzione di una grappa mono vitigno, dalle caratteristiche precise e riconoscibili, anche nel vino, attirò per la prima volta il consumatore sofisticato, che prima di allora consumava solo distillati di importazione. Alcuni mono vitigni nobili opportunamente invecchiati diedero risultati qualitativi impensabili, che minarono le convinzioni di molti intenditori che avevano snobbato, da sempre, il distillato italiano. Nacquero le grappe definite, con una terminologia impropria, morbide, ottenute con il Moscato , il Gewurztraminer, e altri vitigni aromatici che donarono i profumi ricchi tipici del vitigno al distillato, i quali coprivano egregiamente le durezze tipiche della grappa.
Ad onor del vero analizzando le vecchie etichette risalenti agli anni 30 ci si accorge che già allora furono tentati etichettature monovitigno, sopratutto per il Moscato, da sempre molto richiesto dal mercato. Gran Moscato e Moscato furono denominazione ad appannaggio di poche e selezionate distillerie, dove le vinacce di questo vitigno erano oggetto di un vero e proprio mercato, con colpi bassi e accapparramenti. Le grappe aromatiche non subivano mai invecchiamento in legno, o terzializzazione, per premiare gli aromi primari e secondari del distillato, ad eccezioni di alcune produzioni legate al Moscato dove furono e sono realizzate importanti riserve.
Le grappe da mono vitigno definite impropriamente secche (anche la morbida non contiene zucchero se non la percentuale di legge consentita) erano ottenute con vitigni non aromatici del panorama vitivinicolo nazionale, autoctoni e non, a bacca rossa e bianca, il cui gusto era meno articolato sui sentori dolci e suadenti della frutta, ma ugualmente interessante. Da segnalare la prestigiosa grappa di Picolit (un vitigno autoctono friulano raro e di difficile allevamento) con la quale Nonino, prestigiosa azienda del panorama italiano, creò nel 1973 il concetto di grappa di monovitigno.
La grappa di Picolit divenne oggetto di culto e moltissime enoteche si strappavano di mano le bottiglie per poterle vendere alle schiere di intenditori. La grappa era uscita dall’anonimato del vitigno generico, con buona pace dei tradizionalisti. Il secondo in Italia a seguire questa nuova tendenza fu la distilleria Marolo, fondata ad Alba da Paolo Marolo nel 1977. Ma non mancano altre rivendicazioni da parte di altri produttori, fermo restando che, come detto, già negli anni 30 alcune etichette recavano questo tipo di selezione. Con l’arrivo dell’invenzione di Comboni si avrà un efficientissimo processo di disalcolazione a vapore in pressione. Veloce e rispettoso della materia prima, a patto di mantenere pressioni prossime a quelle del bagno maria. Dal processo di disalcolazione con vapore acqueo si ottiene la “flemma”, un liquido che contiene alcol, acqua ed altre “impurità”, acidi, esteri, aldeidi necessari ai profumi ed alla fragranza della grappa, che verrà successivamente distillato e rettificato, per ottenere il prodotto finito. In questo processo conta molto la pressione del vapore che se eccessiva rischia di essere troppo invasiva per le vinacce.
Nei prodotti di pregio si tende ad usare una pressione non molto elevata, massimo mezza atmosfera, poichè l’estrazione troppo rapida e forzata rischierebbe di trasportare anche elementi non desiderati e di cuocere i profumi delicati dell’uva. Per ottenere il vapore necessario, con una pressione sufficiente da attraversare le vinacce poste nelle caldaiette si usavano enormi caldaie, il cui produttore principale era la Cornovaglia.
Questi “mostri” spesso utilizzavano come combustibile i “mattoni” ottenuti pressando le vinacce esauste e nel proseguo della storia furono soppiantate da ben più moderne ed efficienti caldaie che producevano vapore a differenti pressioni. Alcune di esse si possono ancora trovare esposte nei musei dei produttori, mentre molte altre sono state smontate e vendute come ferro. In alcuni casi alcuni produttori narrano che per tagliare e smontare le caldaie furono necessari diversi giorni di lavoro e il lavoro di parecchi uomini esperti.
INVECCHIAMENTO ED ETICHETTE.
Siamo alle fasi finali della produzione.
Il liquido distillato dagli alambicchi passa attraverso un macchinario per contarne i litri. Nella maggioranza delle distillerie si trova ancora il contatore (foto a sinistra) dal meccanismo piuttosto arcaico ma assolutamente efficiente ed a prova del tempo. Questi contatori sono antiche prede belliche italiane della Prima Guerra Mondiale e continuano a fare egregiamente il loro lavoro in moltissime distillerie. Il liquido, una volta contato, viene posto all’interno di vasche in acciaio dalla capacità variabile. La grappa riposerà e perderà la sua naturale irruenza, tipica di tutti i distillati appena prodotti, in attesa che il distillatore svolga le pratiche burocratiche necessarie. Infatti i contatori, ed i condotti degli alambicchi finiscono direttamente all’interno delle vasche e non vi è modo per il distillatore di accedervi per via di piombature, e sigilli in filo di rame e dal caratteristico talloncino blu (foto a destra) della Guardia di Finanza e repressione frodi.
La degustazione della nuova grappa è possibile, in poche gocce, anche loro conteggiate, solo durante la distillazione ed attraverso alcuni rubinetti posti sui condotti dell’alambicco. Queste aperture non permettono certo di sottrarne grosse quantità al controllo fiscale, ma solo di verificare la qualità del prodotto. Le vasche non si possono aprire fintanto che si ha la sua visita ispettiva, entro le tre settimane successive alla comunicazione da parte del distillatore. Gli incaricati preleveranno un campione per le analisi di rito, per il conferimento della tipicità e conteggeranno il quantitativo prodotto per procedere alla sua tassazione. Ovviamente il prodotto avviato alla botte non pagherà alcuna tassa fino alla sua vendita.
Una volta espletate le carte ed avuta la comunicazione dell’avvenuta analisi per via della presenza di metilico ed altri elementi cancerogeni (metalli pesanti rilasciati dall’alambicco), si procede al taglio dei sigilli ed all’imbottigliamento od invecchiamento della grappa. Prima delle procedure di imbottigliamento od infustamento, alcune aziende procedono ad una refrigerazione a -6 che ammorbidisce, di fatto, il distillato, che ha anche il merito di congelare le eventuali parti oleose contenute nel liquido. Nel passato, anche per via di distillazioni imperfette, si manteneva un grado alcolico più elevato per fare in modo che eventuali filamenti grassi non si condensassero nel liquido, mantenendosi in emulsione, cosa che non sarebbe stata possibile a 40 gradi.
La grappa in uscita dalle colonne , normalmente ha un grado alcolico variabile dai 78 – 84 gradi (86 il massimo consentito dal disciplinare presente su questo sito in consultazione) all’interno delle vasche, viene allungata con acqua per portarla a 70 – 75, o anche meno, intorno ai 65 prima di essere immessa in botte, mentre verrà poi imbottigliata a gradazioni variabili dai 60 ai 40 gradi. L’abbassamento di grado è pratica comune a moltissimi distillati in quanto se il grado fosse troppo elevato l’estrazione dei tannini del legno sarebbe troppo veloce e aggressiva per le doghe delle botti.
Ma non tutti sono della stessa idea, specie se le botti non sono di primo passaggio. Le botti normalmente sono di rovere di Slavonia o Francese, provenienti dalle aree di Troncais o Limousin.
Tendenzialmente si procede all’invecchiamento, se la vinaccia utilizzata è rossa ed è proveniente da produzioni enologiche che subiscono a loro volta un’ elevazione da disciplinare, come il Barolo, il Barbaresco o la Barbera. Anche il Moscato sta riscuotendo successo nella sua versione elevata in legno, così come la grappa da Passito di Caluso. Ma ormai con la tendenza imperante e bere distillati invecchiati lungamente, molti produttori invecchiano comunque la loro grappa indipendentemente dal vitigno, per ammorbidire il risultato finale, utilizzando legni diversi, con wood finish diversi. La perdita di gradazione alcolica avviene naturalmente con l’invecchiamento grazie alla dispersione dalle botti, nella misura del 2% annuo, al contempo la grappa si ammorbidisce e ed arrotonda il suo gusto, grazie ai fenomeni ossidativi. A secondo dell’umidità e della temperatura della cantina si attua anche un evaporazione naturale dell’acqua che mantiene abbastanza inalterato il rapporto del grado alcolico.
Oggi con la nuova legge introdotta ad agosto del 2016 non si potrà più scrivere la parola Invecchiata se non si ha un magazzino daziale sotto sigilli. Questo perchè antecedentemente la parola invecchiata, affinata, elevata era usata spesso ed in maniera arbitraria. Se si ha il magazzino si potrà scrivere invecchiata, seguito dagli anni, che saranno certificati da un documento di prelievo della Guardia di Finanza. Oggi, se non si ha un magazzino daziale che certifichi l’invecchiamento, si potranno mettere indicazioni generali come barrique, affinata senza però indicare gli anni totali di affinamento poichè sarebbe impossibile certificarli, ad eccezione della parola del distillatore.
Rimane ancora legale l’aggiunta di caramello naturale, glicerina o saccarosio per ammorbidire il distillato nella misura massima del 2%, mentre sono vietati le aromatizzazioni, a meno che non siano dichiarate in etichetta, come miele, liquirizia e ruta, un erba digestiva. Il caramello non ha funzione edulcorante ma solo di uniformare le colorazioni del distillato invecchiato. E’ vietato inoltre l’utilizzo di aromi di sintesi. Per legge la grappa non può essere venduta con una gradazione superiore ai 60 gradi alcolici, mentre il minimo è 37,5. I termini in etichetta, antecedentemente alla legge, e che rimarranno in vigore fino ad esaurimento scorte, sono:
Grappa giovane o Grappa bianca
riposa per 6 mesi in vasche di acciaio inox, tempo necessario per stemperare l’irruenza giovanile, dove viene refrigerata e filtrata per precipitazione.
Grappa affinata in legno
riposa dai 6 ai 12 mesi in botti grandi da 79 hl, in tonneau da 500 litri o in barrique da 225. Alcuni produttori segnalano in etichetta l’uso dei carati di origine francese.
Grappa invecchiata
matura per 12 mesi ed oltre in botti o barrique e stempera il carattere della grappa, piuttosto spigoloso in gioventù, con gli aromi del legno. Il distillato perde tipicità a favore di una maggiore complessità aromatica fatta di spezie dolci, cacao e tabacco da pipa.
Successivamente, anche se esiste ancora la possibilità di piccole variazioni, si avrà solamente la dicitura Bianca, affinata o altri termini di fantasia, ed invecchiata con gli anni in botte. Rimarrà possibile il wood finish in botti da passito o da vino liquoroso, come Porto, Sherry, Marsala e Madeira, l’uso di legni diversi come melo, acacia, ciliegio e frassino.
LE CARATTERISTICHE ORGONOLETTICHE DELLA GRAPPA.
Come spesso si sente dire la grappa è cattiva compagna di altri liquori e poco adatta alla miscelazione. Solo in parte è vero poichè la grappa può essere miscelata, ce lo insegnano i barman del passato e la nostra tradizione. Si pensi al periodo autarchico ed alla miscelazione futurista, creata dagli artisti dell’avanguardia che prevedeva quasi esclusivamente la grappa.
Inoltre spesso ci si lamenta della sua scarsa digeribilità. Quest’ultima affermazione è figlia del passato quando le grappe avevano molte impurità oleose dovute allo schiacciamento, in torchiatura, dei vinaccioli. Le ragioni sono da ricercare nelle sue caratteristiche organolettiche che prevedono, per legge, una presenza di elementi aromatici pari a 140 grammi litro. Ma non si dimentichi che l’estratto secco di un rum agricolo francese è di 225 grammi e di un whisky torbato intorno ai 180. Ma entrambi sono usati in miscelazione con soddisfazione dai barman.
Per miscelare la grappa bisogna dunque lavorare sulla tradizione, ma sopratutto assecondarla nei suoi profumi e non contraddirla, come una bella signora. Liquori erbacei, come menta, anice, cumino e timo serpillo, vermouth, anch’esso un figlio del vino, bitter e chine sono ottimi compagni di viaggio. I profumi della grappa ben si uniranno con la menta, si ricordi il Grigio Verde con grappa e menta, o talvolta genepy, o con elementi amari e vinosi come nelllo Zuavo con bitter, vermouth, grappa e china. Infine la geniale Grandi Acque, miscela futurista, con grappa, cumino, anice e gin con la provocatoria decorazione composta da un’ostia con acciuga.